Il modello Olivetti: una azienda italiana che può insegnarci il futuro

La lunga e avvincente storia della Olivetti è interessante sotto molti punti di vista. L’Olivetti è stata per molti anni tra le eccellenze internazionali nella ricerca, nello sviluppo e nella produzione di prodotti tecnologici e grazie a questa azienda l’Italia è stata per parecchi anni all’avanguardia dell’information technology.

Il depotenziamento dell’Olivetti è stato molto significativo perchè ha praticamente causato l’uscita dell’intero paese da uno dei mercati più importanti al mondo, uno di quei non moltissimi mercati che oggi fanno effettivamente ‘crescita‘, posti di lavoro, PIL…

Non voglio nascondere la sensazione che ho da sempre leggendo di questa azienda: se l’Olivetti fosse stata adeguatamente supportata, attorno ad essa, nel distretto di Ivrea, avrebbe potuto svilupparsi qualcosa di simile ad una Silicon Valley italiana. Così è stato solo in parte.

Ma in questo articolo mi avventuro non tanto nella storia dell’Olivetti, nelle grandi intuizioni e negli errori commessi nella sua gestione, quanto nell’idea di impresa che Olivetti ha saputo proporre.
Il modello Olivetti ha profondamente innovato l’idea stessa della fabbrica, dell’organizzazione aziendale e del modo di rapportarsi alla competizione globale.

L’azienda è stata fondata da Camillo Olivetti nel 1908 e da lui gestita fino al 1932. Formata inizialmente da pochi operai non specializzati seguiti direttamente da Camillo, in questi primi anni l’Olivetti si afferma come valido produttore di macchine da scrivere.
Il periodo che però più sembra rilevante per l’affermarsi di un vero e proprio modello Olivetti è quello successivo che coincide con l’inizio della direzione di Adriano Olivetti, figlio di Camillo.
In questi anni la Olivetti realizza e lancia sul mercato numerosi prodotti innovativi che porteranno pochi anni dopo alla realizzazione della Programma 101, oggi considerata il primo personal computer mai realizzato.

Sotto la guida di Adriano Olivetti e negli anni successivi alla sua morte l’azienda si trasforma in modo radicale. Una interessante ricerca della Fondazione ISTUD, ‘Esiste un’eredità del Modello Olivetti nel management?’, di cui consiglio la lettura, testimonia di come si possa effettivamente parlare di modello Olivetti e ne sottolinea anche alcune caratteristiche.

Proviamo a capire in quale contesto si sviluppa il modello Olivetti.

1. Taylorismo/fordismo

Citazione Olivetti - officina Ford

A metà degli anni Venti Adriano Olivetti compie un viaggio negli Stati Uniti. Nel corso di questo viaggio visita la fabbrica Ford ad Highland Park (Detroit), la fabbrica che produceva la Model T, ed il complesso industriale Ford River Rouge (Michigan), allora il più esteso al mondo.
Olivetti resta vivacemente impressionato dall’organizzazione fordista che per prima metteva in atto le idee sull’organizzazione scientifica del lavoro di Frederick Winslow Taylor. Il taylorismo/fordismo riusciva ad ottenere risultati produttivi notevolmente superiori rispetto ai modelli precedenti, merito della dettagliata analisi dei metodi di lavoro, del calcolo ‘a cronometro’ delle tempistiche di produzione, degli incentivi…Merito anche, come divenne evidente ben presto, della parcellizzazione del lavoro in piccole operazioni ripetitive ed alienanti che era alla base della catena di montaggio.

Tuttavia, già in questo viaggio negli Stati Uniti Olivetti coglie anche dei limiti nel sistema americano.

Adriano Olivetti - americani

Le modalità di ricezione del modello fordista alla Olivetti si distinguono sin dall’inizio rispetto all’originale per una attenzione decisamente maggiore alle condizioni di lavoro degli operai, sempre considerati esseri umani prima che fattori di produzione.

2. Capitalismo dal volto umano

Adriano Olivetti - socialismo-capitalismo

Si possono provare ad isolare almeno due direttrici fondamentali che hanno orientato l’operato della Olivetti per quel che riguarda l’attenuazione – e forse il superamento – delle difficoltà legate all’organizzazione capitalistica della fabbrica.
La prima è la ricerca di sistemi alternativi alla catena di montaggio. Negli anni Sessanta la Olivetti, assieme ad altre industrie internazionali, inizia a sperimentare nuovi modelli di organizzazione del lavoro. Agli operai vengono variate e aumentate le mansioni non più ridotte alla meccanica ripetizione di poche operazioni. In questi anni si prova anche ad assegnare compiti maggiormente qualificati a ciascun operaio.
Sono i prodromi della nuova organizzazione che si da la Olivetti negli anni Settanta, le cosiddette UMI, Unità di Montaggio Integrate. Gli operai vengono divisi in piccole unità responsabili della corretta realizzazione di parti di macchine, o di intere macchine. Ogni gruppo ha la responsabilità del proprio prodotto di cui controlla la qualità prima di inviarlo ad un secondo gruppo di lavoro.
Le UMI permettono di arricchire il lavoro e la professionalità degli operai e danno ottimi risultati dal punto di vista produttivo.

Al superamento della catena di montaggio bisogna aggiungere la costante attenzione mostrata verso una corretta organizzazione del tempo di lavoro. Nel 1956 l’Olivetti riduce l’orario di lavoro da 48 a 45 ore settimanali a parità di salario anticipando l’intervento statale chiesto a gran voce dal movimento operaio. Non si tratta di una misura estemporanea ma del frutto di analisi approfondite condotte nel corso degli anni. Ne sono testimonianza ad esempio l’istituzione di un Ufficio tempi e metodi, organismo interno che aveva l’obiettivo di gestire i tempi in modo da conciliare le esigenze personali con le necessità produttive, e la precoce concessione del sabato festivo.

I frequenti e notevolissimi interventi sociali a sostegno dei propri dipendenti costituiscono invece la seconda direttrice fondamentale tramite cui la Olivetti ha provato ad ammorbidire gli aspetti più duri del capitalismo. Il management della Olivetti è sempre stato sensibile alle critiche ‘da sinistra’ (Adriano aveva una formazione socialista) al capitalismo. Come è noto, parte del surplus aziendale, quel ‘di più‘ che nell’ortodossia marxista è considerato sfruttamento, viene reinvestito da Olivetti nella creazione di servizi sociali avanzati messi a disposizione degli operai e delle loro famiglie.

Viene realizzata una biblioteca, sempre aperta anche durante l’orario di lavoro, a cui potevano accedere gli operai e che nel tempo divenne un punto di riferimento per l’intera città. Alla morte di Adriano essa contava più di 150000 libri e quasi 800 collezioni di riviste.
L’attenzione dell’azienda nei confronti della salute dei propri dipendenti è anch’essa nota e giustamente celebrata. Meritano di essere particolarmente sottolineati, all’interno di una gestione interna molto virtuosa di tutti gli aspetti sanitari, gli interventi a favore delle operaie, delle mogli dei dipendenti e dei bambini.
Il periodo di gravidanza venne fissato a nove mesi e mezzo, molto di più degli obblighi per legge, e con una retribuzione pari all’80% del salario. Viene istituita l’ALO (Assistenza Lavoratrici Olivetti) ed un consultorio sia prenatale che pediatrico che aveva anche la facoltà di erogare contributi per le giovani madri, per i medicinali e per visite specialistiche esterne.
I figli degli operai avevano degli spazi dedicati all’interno delle strutture Olivetti attrezzate in modo tale da far sentire a loro agio i bambini. Nel 1957 vengono addirittura vaccinati contro la poliomelite i figli dei dipendenti, ben prima che il vaccino divenisse obbligatorio.

3. Ricerca, formazione, cultura…

Il valore dei prodotti della Olivetti era strettamente legato all’innovazione apportata dagli stessi, innovazione derivante da un contesto di ricerca e di formazione di altissimoo livello. Sempre con un approccio di ampio respiro, alla Olivetti vengono studiate le più recenti teorie formative con lo scopo di fornire una preparazione completa ed articolata e, anche in questo caso, a partire dall’infanzia. L’azienda realizza un asilo nido ed una scuola materna per i figli dei dipendenti. Si occupa poi di realizzare o finanziare la costruzione di asili pubblici e paga i due terzi delle rette del doposcuola comunale di Ivrea.
Completamente gratuite per molti anni sono poi state le colonie organizzate dall’azienda durante l’estate, sempre per i figli dei dipendenti.

Quanto alla formazione tecnica viene anch’essa, naturalmente, attentamente seguita dal management Olivetti. Il Centro di formazione meccanici, aperto già nel 1935, realizza una forma reale ed efficace di apprendistato e viene tra l’altro aperto anche agli esterni. Il centro organizza un vero e proprio piano di studi comprendente insegnamenti di cultura generale, educazione artistica, visite ad altre fabbriche, a mostre e a musei. Il centro viene successivamente affiancato da un Istituto aziendale riconosciuto dallo Stato i cui diplomati divenivano spesso dipendenti Olivetti.
Dei primi anni dalla fondazione la Olivetti mantiene le forme di insegnamento diretto, dai più esperti ai giovani, tipiche delle aziende familiari e degli apprendistati, a cui affianca però percorsi formativi più articolati, oltre alla fornita biblioteca già ricordata.
Ai primi operai non specializzati formati direttamente da Camillo Olivetti si aggiungono negli anni i migliori laureati del paese facendo dell’azienda un centro di ricerca di prim’ordine.

La ricerca culturale non si svolge quindi esclusivamente nei settori di più prossima continuità con i prodotti venduti dall’azienda ma abbraccia un ampio ramo di discipline. Si può sicuramente dire che la Olivetti ha provato concretamente a riunire la conoscenza tecnica e quella umanistica.
Tale incontro inizia proprio con la scelta dei dipendenti da assumere. Viene elaborato in Olivetti il cosiddetto “principio delle terne” secondo cui per ogni nuovo assunto in campo “tecnico” devono venire assunti anche un dipendente con formazione economico-legale ed uno proveniente da studi umanistici.
Ed infatti alla Olivetti hanno lavorato nomi di spicco della cultura italiana di quegli anni. Per fare alcuni esempi, il poeta Giovanni Giudici lavora alla Olivetti dal 1956 al 1979, il poeta e critico letterario Franco Fortini è invece assunto dal ’47 al ’60; anche lo scrittore, poeta e politico comunista Paolo Volponi passa molti anni in Olivetti, di cui cinque (1966 – 1971) come direttore del settore relazioni sociali.
Ma gli intellettuali che lavorano in Olivetti, anche con ruoli di primo piano (ad esempio Geno Pampaloni), sono veramente molti, soprattutto nel settore commerciale e nei servizi sociali.
Olivetti realizza poi diverse riviste aziendali di grande qualità, incontri pubblici, finanzia e promuove varie riviste esterne.

4. Socialità, solidarietà e organizzazione

Questi interventi contribuiscono a creare il peculiare clima che si respira in Olivetti. Tutte le testimonianze delle persone che hanno lavorato nella azienda di Ivrea descrivono un contesto informale gestito da una leadership molto forte, autorevole ed aperta al dialogo con i dipendenti.
Il team Olivetti è estremamente compatto, curioso, efficiente e si sente parte dell’azienda per cui lavora.
Una rete spontanea di soliderietà tra le persone viene a crearsi ad ogni livello.

La libertà di pensiero e di confronto viene sostenuta fattivamente anche con promozioni, impossibili in contesti più ‘chiusi’. Le differenze gerarchiche sono funzionali alla divisione dei ruoli e ad una organizzazione meticolosa del lavoro ma hanno una limitata importanza sul piano delle relazioni personali.

L’assunzione diretta sia del management che dei dipendenti attraverso selezioni molto particolari, che non si limitano mai al solo vaglio delle competenze e dei curricula, e soprattutto la scelta di non licenziare mai i dipendenti anche in momenti di grave crisi aziendale, contribuiscono in modo determinante a creare un solido legame interno all’azienda.

5. Un’idea politica: il comunitarismo

Ma il legame e la coesione dell’Olivetti vanno anche oltre la condivisione di valori e di pratiche. Adriano Olivetti prova a realizzare la propria visione politica comunitaria sia nell’azienda che con la costituzione della Comunità del Canavese.
Spiega sinteticamente il significato della proposta comunitaria lo stesso Olivetti in una intervista rilasciata al filosofo Emilio Garroni, di cui riporto uno stralcio:

Quali sono ingegnere i rapporti tra questa comunità del Canavese che è proprio quasi una esemplificazione dell’ideologia comunitaria e l’ideologia stessa?

Ma qui noi abbiamo voluto, qui nel Canavese, appunto per la difficoltà di questa ideologia, creare uno strumento vivo, io direi un progetto pilota, un laboratorio sociale in cui nella realtà e nella vera vita si da luogo ad una azione comunitaria, cioè a una azione in cui ciascuno nel proprio ambito e nella propria funzione lavora a un fine comune e coordinato che è la caratteristica vitale dell’idea e dell’ideologia comunitaria.

Nella stessa intervista, che consiglio di vedere, vengono mostrati i principali interventi della Comunità e la composizione del Consiglio.

Per capire invece come si articolassero i rapporti sindacali all’interno della fabbrica è invece molto interessante una intervista a Bruno Trentin che racconta sia gli scontri tra il sindacato e Adriano Olivetti che la riappacificazione:

Perché fu così violento lo scontro con il sindacato?

«Le sue idee, in molti casi anticipatrici rispetto allo stesso sindacato, avrebbero dovuto essere al centro di un grande dibattito ed egli stesso avrebbe dovuto assumere come interlocutori le grandi confederazioni sindacali. Invece la scelta, che gli fu consigliata da qualcuno, fu di inventarsi in qualche modo un sindacato aziendale che fosse più disponibile a tradurre in accordi le sue idee. E quella fu una scelta infelice perché determinò una rottura sul fronte sindacale sollevando dei problemi che io sono sicuro che Adriano Olivetti non avrebbe voluto affrontare, come quelli di una discriminazione a favore di un sindacato e a danno di altri».

Soprattutto è difficile considerare un lavoratore nella sua complessità senza sconfinare nel paternalismo?

«Il lavoratore è una persona, non un’astrazione. E’ una persona concreta, in carne ed ossa, con i suoi problemi, i suoi bisogni ed anche con i suoi sentimenti. Paternalismo diventa quando uno sguardo attento ai problemi dell’altro diventa il tentativo di risolvere i problemi per conto dell’altro. Questa non sarà mai la strada giusta. Bisogna assumere che l’altro è da un’altra parte rispetto all’imprenditore si tratta di trovare un compromesso, ma molto spesso passa attraverso il conflitto e questo secondo me non ha saputo cogliere Olivetti quando era ancora in vita».

Dopo la morte di Adriano è trionfato il mito, cancellando nel ricordo tutte le contraddizioni. Come mai?

«Perché le cose anche prima della morte di Adriano Olivetti hanno cominciato a cambiare. Si è aperto ad esempio un dialogo fecondo con tutte le organizzazioni sindacali. Lo stesso sindacato di Autonomia Aziendale ha dovuto rivedere le sue posizioni ed i suoi orientamenti e cercare una linea unitaria con gli altri sindacati. Questo ha permesso anche alle iniziative della Olivetti di essere socializzate in qualche modo in un confronto molto franco e plurale. Ecco perché prima ancora della sua morte si afferma quello che è stato giustamente la grandezza delle intuizioni di Adriano Olivetti».

Traspare chiaramente dalle parole dell’importante sindacalista la stima e il rispetto che egli nutriva per Adriano Olivetti a cui riconosce, tra l’altro, una capacità anticipatrice rispetto allo stesso sindacato.

6. Bisogna saper vendere

Stando alle cose dette, è oggi quasi difficile da credere che la Olivetti riuscisse ad avere dei margini di profitto. Come riusciva Olivetti a permettersi tutto questo?

Come già ricordato, Olivetti vendeva prodotti con un alto contenuto innovativo, efficienti ed utili. Le macchine Olivetti erano macchine di qualità e venivano vendute ad un prezzo alto rispetto al costo di produzione. Il singolo pezzo venduto aveva quindi un consistente margine di guadagno che veniva reinvestito in capitale fisso, servizi sociali e, naturalmente, salari.
L’intera organizzazione riusciva ad essere assolutamente competitiva sul mercato senza essere orientata al mero profitto e questo principio è sempre valso anche a livello personale. Proprio per questo motivo esisteva in Olivetti una relazione tra gli stipendi degli operai semplici e quelli dei manager più importanti. Difficilmente in una azienda Olivetti il manager più importante avrebbe guadagnato più di una ventina di volte un operaio appena assunto.

In sostanza le precondizioni alla possibilità del reinvestimento interno del surplus erano proprio l’alta qualità del prodotto mantenuta nel tempo e l’equa retribuzione della dirigenza.
Oltre a ciò merita di essere sottolineato quanto Olivetti fosse una azienda capace di vendere. Anche questa capacità di ‘piazzare’ il proprio prodotto sul mercato non nasce dal nulla, deriva da precise direttive ed investimenti della dirigenza.
Un caso per molti versi simbolico avvenne nel 1953, in uno dei periodi di maggiore difficoltà Adriano Olivetti decise di non licenziare operai ma, anzi, di assumere persone nel ramo vendita. Il numero di addetti al settore commerciale era incredibilmente esteso se confrontato con quello delle altre imprese industriali.

Anche per i venditori esistevano dei canali di formazione interni all’azienda ed un centro pensato appositamente, il Centro di Istruzione e Specializzazione vendite.
Detto con altre parole, i venditori Olivetti (che come ricordavo poco sopra erano non di rado letterati e poeti) erano bravi, creativi ed efficaci.

Non va inoltre trascurato che parte del successo riscosso dai prodotti Olivetti risiedeva nella loro bellezza estetica.

7. La ricerca della bellezza

A monte della produzione delle macchine Olivetti vi era un grande lavoro di progettazione che coinvolgeva anche l’usabilità ed il design, quest’ultimo sempre controllato ed approvato direttamente dal management.
L’efficacia dell’incontro tra design accattivante, la comunicazione di alto livello e la qualità complessiva del prodotto è oggi tanto evidente da essere un consolidato patrimonio di tutte le grandi aziende produttrici nel settore tecnologico, Apple in testa.
Tuttavia, nel caso di Olivetti, è difficile dire che la bellezza estetica dei prodotti fosse esclusivamente finalizzata alla vendita. Essa è in effetti parte di un complessivo studio sull’estetica, di un diffuso gusto per la bellezza e di una attenzione particolare per l’arte.

Guttuso - Boogie Woogie
Boogie Woogie di Renato Guttuso, una delle opere della Olivetti.

Negli anni collaborano con Olivetti alcuni dei più importanti architetti dell’epoca. La sede Olivetti di Ivrea viene più volte ripensata da due importanti architetti razionalisti, Luigi Figini e Gino Pollini. Luigi Cosenza progetta la fabbrica di Pozzuoli, Eduardo Vittoria il Centro studi ed esperienze di Ivrea, la fabbrica di San Bernardo di Ivrea e, assieme a Marco Zanuso, lo stabilimento di Scarmagno. A Louise Kahn viene affidata la progettazione della fabbrica di Harrisburg in Pensilvania, a Kenzō Tange gli edifici Olivetti a Tokio…
In sostanza ogni nuova fabbrica, ufficio o negozio viene curata da architetti e designer di primo piano. Egor Eiermann, James Stirling, Carlo Scarpa, Gae Aulenti…la lista di collaborazioni eccellenti della Olivetti è veramente lunghissima.

L’architettura è sicuramente il più naturale incontro tra la ricerca portata avanti dalla Olivetti ed il mondo dell’arte, e tuttavia l’azienda italiana mette anche in mostra, soprattutto nei propri negozi, opere pittoriche di primo piano. Opere di Guttuso, De Chirico, Carrà, Morandi, Kandinskij, Klee, testimoniano quanto l’interesse della Olivetti per l’arte fosse tutt’altro che strumentale.
La bellezza delle macchine Olivetti è riconosciuta universalmente, tanto che il MoMA ospita una decina di modelli Olivetti, tra cui la macchina per scrivere Valentine e la celebre Lettera 22.

Film e libri sulla Olivetti