Le startup non devono mica cambiare il mondo. E sicuramente non lo renderanno un posto migliore

Di startup ormai si parla in continuazione, talvolta con un po’ di confusione e sicuramente in certi ambiti anche con molta enfasi.
Un entusiasmo che è partito alla grande dalla ben nota Silicon Valley, anche se poi in realtà molte delle idee che si sono rivelate essere le più innovative continuano a nascere in paesi che non hanno nulla a che fare con gli Stati Uniti (grande interesse ad esempio stanno riscuotendo in questo momento attività estremamente avanzate di aziende siberiane, ed altre realtà ormai consolidate hanno preso avvio in zone comunque ben lontane dalla California).

startup

Il solito grande entusiasmo americano, insomma, che, come sempre, pur contagiando un po’ tutto il mondo, poi stenta ad adattarsi e a prender piede in ogni dove.

Esempio ne è il nostro ecosistema startup italiano (il cosiddetto decreto-legge “Crescita 2.0” del 2012 indica i requisiti per identificare una startup innovativa) che sembra non decidersi a decollare del tutto, e questo per varie questioni, prime fra tutte il poco aiuto concreto dato dalle istituzioni ed anche per la facilità con cui talvolta riusciamo a impantanarci in bagarre varie e burocrazia.

Idee brillanti, insomma, che andrebbero premiate per la loro portata innovativa (le startup devono infatti essere in grado di “aprire le porte” a nuove soluzioni ripetibili) e per le quali viene chiesto un appoggio in fase di avvio, ma che talvolta si allontanano dai requisiti richiesti e che, almeno in Italia, sembrano avere tempi interminabili per riuscire a sostenersi autonomamente, oltre che non riuscire a creare il numero sperato di posti di lavoro.

Comunque, l’impatto avuto dalle startup tecnologiche nell’economia mondiale è rilevantissimo. Fare startup significa fare economia in un certo modo. Ed è indubbio che in molti casi le startup hanno ottenuto risultai economici sorprendenti, influenzando intere generazioni di imprenditori.

Ognuno poi “fa startup” a modo suo. Non possiamo però non vedere quanto questa enfasi sul mondo startupparo abbia anche, talvolta, delle connotazioni ideologiche.

The newest companies that could change the world, recita la sezione di Techcrunch dedicata alle startup (la testata americana tra le più affermate nel settore dell’innovazione che organizza la “Disrupt startup battlefield”, la competizione itinerante che ha rappresentato il trampolino di lancio per molte startup, oggi aziende più che affermate a livello mondiale). Cambiare il mondo. Ovviamente per renderlo a better place (e non poche le reazioni ironiche a questi grandi obiettivi).

Ma è proprio vero che le startup possono rendere il mondo migliore? O meglio: è questo il loro scopo? C’è chi afferma che molte startup siano motivate da una spinta a cambiare il nostro modo di vedere e interagire con il mondo che ci circonda e che addirittura possano dare grandi lezioni di vita. Lo sono veramente?

Ma poi, in sostanza: perché?

Un modo forse un po’ fuorviante di intendere le startup, non esattamente quello per cui di base si propongono di agire, e cioè come modelli temporanei o comunque come società di capitali che intendono cercare e testare un nuovo tipo di business che possa essere ripetibile e scalabile.

Ad ogni modo: in Italia qualcosa bolle in pentola in fatto di startup. E forse le iniziative italiane possono non abbracciare in toto la mentalità americana. Pensiamo ad esempio al recente avvio di un progetto che vede la partnership della divisione di Google dedicata a connettere imprenditori innovativi e startup di tutto il mondo e la piattaforma milanese Talent Garden.
Qui si parla tout court di “dare alle startup italiane opportunità di crescita e di accesso a una rete di eventi globale”, nessun cambiamento del mondo per renderlo un posto migliore.
Obiettivi che sembrano, almeno per ora, schietti e potenzialmente realizzabili.

Alessandra Buschi per Web Crew