Qwant vs Google. Quanto impatta la privacy nella scelta del motore di ricerca

Ultimamente la privacy è diventata argomento da bar. Punto focale delle conversazioni tra intellettuali. Notizia di punta nei tg nazionali e nei quotidiani. E’ da un po’ che non si parla d’altro. Abbiamo trascorso anni a condividere ogni singolo istante della nostra vita e lo facciamo ancora. Mostriamo ai nostri follower quanti caffè prendiamo al giorno e le località da sogno in cui andiamo in vacanza. Siamo tutti blogger e influencer.

Il solo pensiero di non entrare in almeno una pagina web al giorno ci fa precipitare in un baratro senza speranza. Cerchiamo i ristoranti online e facciamo shopping negli e-commerce. Perché costa meno. Perché i negozi del centro sono cari in confronto. Eppure eccoci tutti tremendamente spaventati. Da quello che è il nostro sacrosanto diritto a farci i fatti nostri. A mantenere segreti alcuni aspetti della nostra quotidianità. E così che la privacy diventa un valore da custodire ad ogni costo. E così che nascono nuovi metodi per arginare il passaggio in ogni angolo del pianeta dei nostri dati. Da qui prende il via Qwant.

QWANT

Qwant, per dirla in parole povere, è un motore di ricerca, alla stregua di Google e degli altri che già conosciamo. E’ stato fondato in Francia da Eric Lendri, ma dietro ha tutta una serie di finanziatori importanti: la Cassa depositi e prestiti francese, l’Unione Europea e la Axel Springer, gruppo editoriale tedesco. Nomi che si sono voluti mettere in gioco proprio all’indomani dell’entrata in vigore del Gdpr nei territori europei.

Qwant, infatti, ha fatto della difesa alla privacy il suo tratto distintivo. Quello che lo rende diverso e unico dai competitor. In che modo? Gli sviluppatori hanno creato un programma che si chiama Masq e che è un semplice sistema, attraverso cui i dati di navigazione restano salvati solo sul dispositivo usato dall’utente per la ricerca. Non esistono software in grado di effettuare nessun tipo di profilazione o di creare una banca data di informazioni. Quei dati, infatti, possono essere conservati solo dall’utente stesso, se questi lo desidera.

Al pari del suo concorrente più importante, anche Qwant dispone di tutta una serie di servizi. Ci sono le mappe. C’è la musica. Ci sono i giochi. Ci sono le notizie. C’è anche la realtà aumentata. Così come è possibile usufruire di un sistema di streaming o di posta elettronica. E molti altri saranno disponibili nel futuro in tutta Europa: Qwant Pay, tanto per dirne una.

Insomma, Qwant sembra avere le carte in regola per spodestare totalmente Re Google e quei suoi “biscottini”, che si sbriciolano per lasciare traccia del nostro passaggio, quasi fossimo Hansel e Gretel. L’unico ostacolo da arginare, per il momento, è la scarsa popolarità tra gli utenti e la mancanza di abitudine ad andare ad aprire un motore che non sia il classico e caro Google.

Da parte mia trovo che sia assolutamente sano che nel mercato esistano diverse offerte e diverse proposte. Ma io faccio parte di quella categoria di pigri poco convinta a cambiare modi di comportamento. In realtà credo anche che questa storia della privacy sia un pelino sopravvalutata. E’ vero che i nostri dati sono stati utilizzati a volte in modo improprio e a volte per scopi illeciti o criminali, addirittura. Ma a me essere profilata non dispiace per niente. Lo dico da donna di marketing.

E’ una conseguenza dei tempi moderni. E’ un qualcosa che è insito nel nostro stesso vivere sempre in connessione con il mondo. E, sarò sincera, questa cosa, a tratti, mi rasserena. Non mi spaventa. Anzi. La creazione di un internet parallelo, in cui i cookie non esistono e noi non lasciamo tracce, mi dà da pensare. Perché non è tutto oro ciò che luccica. A partire dal peso dei dati che dovremmo conservare sul nostro smartphone per far funzionare Qwant e che saranno l’ennesima gatta da pelare quando, sullo schermo, apparirà il solito messaggio: la tua memoria è terminata.

Giulia Salis