Quando una persona diventa un brand

Il personal branding funziona. A me, però, non piace.
In questo articolo provo un po’ a capire da dove viene l’idea del personal branding e a spiegare perché ne farei volentieri a meno.

Il testo è venuto fuori lunghetto. La sintesi comunque è: chi si occupa di marketing non necessariamente deve accogliere con gioia qualsiasi prassi si va diffondendo nel settore. Inoltre, non necessariamente bisogna chiamare qualcosa col nome più orrido possibile.

In fin dei conti una persona può utilizzare i nuovi media per promuoversi senza particolari problemi. Avvicinare la “persona” e il “brand” al punto da fonderle in un unico concetto di marketing non significa però semplicemente promuovere una attività personale. Significa qualcosa di diverso, più subdolo e, in definitiva, più brutto.

personal brand

Il brand aziendale

Che l’idea di brand si affermasse in ambito aziendale era facilmente prevedibile. Un mondo economico che si allarga, tenuto insieme da strumenti di comunicazione sempre più capillari, richiede necessariamente alle aziende la capacità di adeguarsi al mutato contesto.

Una azienda è tante cose. E’ un insieme difficilmente definibile di persone, di processi, di prodotti/servizi, di slogan, di storia…In un contesto economico in cui la conoscenza diretta tra produttore e consumatore diventa un fattore economico sempre più marginale, è praticamente fatale che ogni azienda debba comunicarsi, far sapere che esiste, e che abbia bisogno di strumenti rapidi e diretti per farsi conoscere dai potenziali acquirenti. Nel momento in cui una azienda inizia a dotarsi di questi strumenti, per esempio realizza un logo (per dire qualcosa che praticamente tutte le aziende hanno), l’azienda inizia in qualche modo a “riflettere su se stessa” e sul modo di comunicarsi.

Il brand è il concetto che viene utilizzato per riassumere l’insieme di prassi attraverso cui una azienda o un prodotto vengono comunicati. Le marche vanno ben al di là della descrizione fattuale di cosa le aziende in effetti sono. Una marca non è la somma dei prodotti di una azienda, né quella dei lavoratori o dei proprietari. Il brand è una certa aura. Un certo modo con cui un’azienda si comunica.

Tutto ciò che riguarda un’azienda fa parte del suo brand nel momento in cui viene comunicato, diventa noto a terzi.

Esiste una distanza tra ciò che l’azienda è realmente ed il brand dell’azienda stessa. Una distanza che permette naturalmente distorsioni anche molto significative. Il brand infatti può selezionare solo una parte di ciò che fa parte dell’azienda e può nascondere altro, magari perché ininfluente o perché dannoso.

Un semplice esercizio di vicinato, un rivenditore per esempio, che ha semplicemente un logo e un negozio allestito in un certo modo, magari neanche troppo “pianificato”, ha comunque un brand ma, si potrebbe dire, la distanza tra il brand e l’azienda reale è molto poca.
Una grande azienda si dota invece di una serie di strumenti per comunicarsi incredibilmente estesi e costruisce il proprio brand in modo molto più ragionato e specifico.

Brand straordinari, luccicanti, sfarzosi, possono in realtà avere dietro aziende che agiscono prassi immorali o illegali che però non vengono comunicate.

Che esista una distanza tra brand e azienda è nel contesto attuale inevitabile. Il modo in cui nasce un brand può poi essere più o meno attinente alla realtà. Può essere, per così dire, un pezzo di realtà, una emanazione diretta della realtà aziendale. Ma può essere anche una realtà completamente costruita a tavolino e totalmente svincolata dalla realtà aziendale.

In generale, considero assolutamente normale che, per vendere, un brand provi ad essere attrattivo, a comunicare un’immagine positiva. Penso sia invece molto scorretto “coprire” le mancanze di una azienda con strategie di branding incoerenti con la realtà aziendale.

La stragrande maggioranza delle aziende per cui ho lavorato avevano degli autentici punti di forza. Qualcosa di bello. Una storia, un prodotto. Qualcosa che vale la pena enfatizzare nel brand. In tutti questi casi lavorare sul brand, migliorarlo, significa in effetti soltanto migliorare la qualità del rapporto tra azienda e consumatori e trasmettere nel modo migliore i reali punti di forza dell’azienda al maggior numero possibile di persone. Il rapporto tra azienda e clienti è un rapporto complesso che passa sia per i canali di comunicazione che per il processo di vendita, per il customer care e così via…

I brand sono costantemente soggetto di palesi distorsioni il cui rischio è insito nell’idea stessa di brand. Ma, tutto sommato, nel branding aziendale in sé non trovo nulla di male.

Il divismo

Ma il personal branding non ha alle spalle solo il concetto di brand aziendale. Il divismo è, penso, la seconda area concettuale che confluisce nell’idea di personal branding. Ed il divismo ha molti profili discutibili, secondo me.

Il fenomeno nasce nell’ambito del cinema attorno al 1910.
Sembra che l’attore André Liabel, star della serie di film polizieschi Nick Carter, rimase molto sorpreso quando incominciò a ricevere lettere di donne che gli dichiaravano il proprio amore. Donne che non separavano l’attore dal personaggio interpretato.
Era il primo decennio del Novecento e il divismo muoveva i suoi primi passi.

asta nielsen
Asta Nielsen, secondo alcuni la prima vera “diva”.

Il divismo, una specie di religione laica, nella sua evoluzione di forme e personaggi ricorda vagamente la complessa trasformazione delle divinità dei miti greci. I divi sono figure che, pur mantenendo delle differenze individuali, possono essere raggruppate per caratteristiche fisiche e comportamentali simili e che poi evolvono in nuove generazioni divistiche.

C’è insomma sia una somiglianza che una differenza tra le varie dive “fatali” degli Anni ’20 e ’30 (Theda Bara, Marlene Dietrich…) e le varie dive “prosperose” degli Anni ’50 (Marilyn Monroe, Sophia Loren…). Figure che poi vengono sostituite nella generazione successiva da altre dive, differenti, anch’esse però con tratti comportamentali e fisici simili e diversi rispetto alla generazione precedente.

Dai primi del Novecento in poi, ogni periodo ha il suo set di divi.

Il divismo cambierà più volte la storia del cinema, modificando i rapporti di forza tra produttori, registi e attori. Il potere contrattuale delle majors va via via diminuendo sin dagli Anni ’80 finché nei primi 2000 i divi possono non solo decidere quale film realizzare ma ne influenzano in modo decisivo l’esito al botteghino e la stessa produzione. Avere o non avere un certo divo all’interno del cast può essere dirimente nella scelta su se produrre o no un certo film.

La star non è più solo testimonial di un prodotto, è spesso proprietaria di case di produzione e anche di marchi indipendenti che non hanno nulla a che fare col cinema ma che beneficiano dell’immagine del divo. Dai locali alle aziende di gioielli, dai profumi agli alcolici, un divo può promuovere o proporre sul mercato praticamente qualsiasi cosa. In alcuni rari casi un divo può addirittura governare la California.

Il divismo naturalmente non rimane a lungo confinato nel cinema. Sport, arte, politica, giornalismo, televisione, quasi ogni ambito dell’attività umana ha i suoi divi.

Nel 1982 il pubblicitario francese Jacques Séguéla scrive: “ogni marca deve essere una stella, di qualsiasi grandezza possa essere, a qualsiasi altezza possa brillare”. La frase è contenuta in un testo dal titolo Hollywood lava più bianco.

Non so se i brand sono diventate delle star, sicuramente molte star sono diventate dei brand.

Personal branding

Che differenza c’è tra il “normale” divismo e il personal branding?

Il divo ha una sua storia, una sua genesi. Divi si diventa, molto spesso con fatica, facendo qualcosa per un certo tempo, un tempo lungo. Il divo non è una meteora, resta sulla cresta dell’onda per anni prima di poter usufruire dei vantaggi della sua “dività”. Il divo insomma può diventare brand, se vuole, dopo una certa storia che l’ha portato ad essere un divo.

Il personal branding invece è una strategia di marketing. Non bisogna necessariamente diventare dei divi per poi proporsi come brand a terzi, ci si può proporre come brand sin dall’inzio, come approccio.
Ed è quello che sta accadendo. Se avete come me il piacere di frequentare Instagram, il social all’avanguardia nel personal branding, vi sarete sicuramente imbattuti in profili di ragazzi (talvolta bambini con meno di dieci anni) che gestiscono la propria immagine come se fossero dei brand.

I profili Instagram di questi ragazzi (più spesso in realtà, ragazze), non sono in effetti solo una serie di foto di sé e della propria vita. Sono un’attività promozionale esercitata su se stessi.
Può sembrare una sfumatura, una sottigliezza psicologica. Non lo è. E’ un’evidenza che balza all’occhio di chiunque abbia una minima dimestichezza con le dinamiche del marketing. Ad esempio, queste ragazze solitamente si “sovraespongono”. Sono presenti in più del 90% delle loro foto.

Era una cosa che inizialmente non riuscivo a spiegarmi. Perché fotografarsi sempre? In realtà è facile da capire. Avete mai visto una pubblicità della Coca-Cola senza la Coca-Cola?

Il personal brand è quindi una strategia di branding che fa a meno del prodotto. La costruzione di un brand fine a se stesso. Un’operazione che poi, se riesce, permette di vendere praticamente qualsiasi cosa. Tendenzialmente quel che accade è che la persona divenuta brand inizia a vendere prodotti che ritiene affini. Tipo i vestiti, di solito. Ma non necessariamente.

Che male c’è? Che c’è di male?

La prima radicale opposizione che sento ogni volta che mi imbatto in fenomeni di questo tipo è causata proprio dalla giovanissima età delle persone coinvolte. L’idea di personal brand svincola il brand dalla competenza, dalla realizzazione di prodotti o di servizi, rendendo di fatto l’intero processo alla portata di chiunque, senza distinzione di sesso, razza, religione. O età.

Possiamo discutere su se il divismo possa essere sostenuto o meno da un attore famoso o da un grande calciatore. In molti casi viene sostenuto, in altri no (in quei casi finisce spesso in modo triste, se non tragico).

Scrivo “sostenuto” perché mi pare evidente che tale processo possa essere faticoso per la persona che lo vive. Persona su cui vengono caricate aspettative immani e su cui si scatenano spesso critiche feroci. Come se non si trattasse più di una persona ma a tutti gli effetti di un qualcosa di diverso, un divo, o non so io cosa…
Non ho dubbi sul fatto che bambini e ragazzi non debbano essere lasciati in balia di questo meccanismo.

Bisogna poi considerare la dinamica strettamente economica. Immaginiamo un caso – non voglio fare esempi reali – di una persona che inizi ad applicare una strategia di personal branding. Anche non in giovanissima età, magari a vent’anni. La strategia funziona e dopo un paio d’anni questa persona inizia a vendere qualcosa, non so, dei profumi prodotti da altri, per esempio. Diventa ricca.

Buon per lui o per lei. Naturalmente.
Se però facciamo un po’ di attenzione a questo esempio immaginario, sarà facile rendersi conto di come questa persona sia diventata ricca praticamente senza lavorare.

Fare personal branding è una attività che può essere faticosa, anche molto faticosa. Stressante. Non pensate a ciurme di idioti che si fanno i selfie. E’ più complicato di così. Ma, per quanto faticoso, non si tratta di un lavoro, nel senso che nessuno pagherebbe mai un altro a caso per farsi le foto o i video.
Allestire un processo di vendita di prodotti fatti da terzi è invece estremamente semplice (le cosiddette ‘affiliazioni’). Richiede un po’ di lavoro. Magari sì, un po’ sì. Ma poco. Di fatto la cosa difficile è proprio fare per anni personal branding non retribuiti da nessuno e senza che nessuno lo abbia chiesto. E’ perché ha fatto “bene” personal branding che la persona del nostro esempio diventa ricca. In sostanza, appunto, la persona dell’esempio diventa ricca per un qualcosa che ha fatto, la promozione di sè, che però non è un lavoro.

E’ forse proprio per questo, del resto, che il personal branding va così di moda tra i più giovani. L’illusione di ottenere una retribuzione senza nessuna particolare competenza, senza aver imparato nessun particolare lavoro.

Quando vedo persone che attuano questa dinamica con successo non provo né invidia, né rabbia, né ammirazione. In effetti, affari loro. Ma quando diventa una dinamica sociale relativamente estesa, a me dei dubbi vengono.
Mi vengono perché l’idea della retribuzione svincolata dal lavoro non è nuova. Sto pensando alle rendite, alla finanza o all’editoria che campa senza vendere copie, solo con gli introiti pubblicitari. Esempi positivi non me ne vengono. Il lotto?

Siamo sicuri che non sia meglio vincolare il lavoro al riconoscimento economico che qualcun altro direttamente ci fa? Se qualcuno direttamente ti paga, in fondo, significa che stai facendo qualcosa che qualcuno ritiene utile, importante, valida. In sostanza, siamo così sicuri che l’idea tradizionale di lavoro sia proprio da buttare?
Se così fosse forse bisognerebbe cambiare l’articolo 1 della Costituzione.

Infine una terza cosa. Scrivevo che per un divo non dev’essere semplice sostenere la fama che l’esser divo comporta. Questo è facile da capire. Oltre a dover svolgere bene il proprio lavoro un divo è sempre al centro dell’attenzione. Deve essere molto bravo a mettere una maschera. E poi a levarla e rimetterla. Perché la propria vita personale diventa parte del brand che gestisce. Apparire in pubblico con i capelli tagliati male può significare perdere milioni di euro o non venire eletto. O viceversa.
Non è facile. Sappiamo che sono tanti i casi di star sorridenti sotto ai riflettori e psicofisicamente devastate nei camerini.

Tuttavia il divo può dedicarsi al lavoro, può non apparire per un periodo, può, in ultima istanza, non fare più il divo e tornare a fare solo il suo lavoro. Ed è così che infatti avviene. Un divo gestisce le sue apparizioni pubbliche. Gestisce il suo lavoro.

Ecco chi costruisce un puro brand personale (un brand senza prodotto) questo non lo può fare. Deve essere sempre presente, quantomeno finché non “vince”. La maschera deve metterla varie volte ogni giorno.
Talmente spesso che dubito che molti di questi “aspiranti nuovi divi” riescano a distinguere ciò che loro sono da ciò che in loro è brand. Io dall’esterno spesso non riesco a capirlo.

Ma una differenza deve pur esserci, perché tutti gli esseri umani nascono nudi, e non nascono marchi.